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Il Mattino di Padova - Edizione del 07 luglio 2009 - Cultura&Spettacoli

Dentro la storia di Ezzelino
II vicario di Federico II e la sua Damnatio memoriae

L'assessorato alle politiche giovanili della Provincia di Padova pubblica un volume a fumetti.

La ricostruzione di un'epoca di conflitti violenti. I nemici del "tiranno" furono crudeli come lui.

 

I luoghi dove scorre  la nostra vita, la “piccola patria” veneta straziata della guerra più sanguinosa tra Dio e Cesare.  Padova alla mercé di saccheggi e stupri, Treviso trasformata in un patibolo, Venezia ribollente d’odio, Bassano e Vicenza costellate di cadaveri mutilati. La crociata contro Ezzelino III da Romano, sì. L’unica, nella storia, bandita da un Pontefice contro un nobile cristiano. Si svolse tre spicchi di millennio fa, è ancora ammantata di leggenda.
Perché tanto accanimento postumo contro un “tiranno”, crudele certo, ma in fondo non più spietato dei suoi nemici? Perché Ezzelino, prima che signore di terre e castelli, è genero e vicario di Federico II nell’Italia del nord: un mi-raggio, quello dell'impero, al quale il «mostro» inviso ai guelfi sacrifica tutto: alleanze, famiglia, affetti, possedi-menti La stessa vita. Un disegno destinato al disastro, sì, perché di segno opposto è il vento che spira nelle terre padane di metà Duecento: l’ascesa della borghesia commerciale e artigianale nelle città, l’af-fermarsi del Comuni, lo sbriciolarsi del centralismo imperiale, il declino del lealismo  tra liberi contadini e feudatari; il trapasso linguistico dal latino al volgare, perfino.
Il Veneto, l’Italia, l’Europa stanno cambiando. Ma lui, l’«uomo di ferro» che presta giuramento sulle tombe degli avi tedeschi sepolti a Onara, non cede di un palmo. Non tollera le ingerenze del clero: «Via di qui o vi faccio frustare», intima ai monaci che si aggirano nella sua corte; ed è sprezzante nel respingere la pretesa vaticana di legittimare il potere laico previo atto di sottomissione. Se creda in Dio non lo sappiamo. Qualcuno testimonia di averlo visto raccolto in preghiera, altri sostengono che, al pari di Adelaide degli Alberti di Mangona, che lo partorì il 25 aprile 1194, coltivi un’unica fede, quella nell’astrologia. Certo è che nel raggio del suo dominio impone col pugno d’acciaio l’obbedienza ai recalcitranti aristocratici: un semplice sospetto di tradimento, ai suoi occhi, equivale a una sentenza di morte. Nessun com-promesso, nessuna pietà: è inviso perfino al fratello Alberi co, che gli volta le spalle nell’illusione di evitare il ferro e il fuoco delle armate papaline.
Scomunicato, maledetto, bollato come «Figlio dell’Anticristo», dichiarato nemico pubblico dai potentati guelfi; la parabola del tiranno si intreccia con le biografie di personaggi fascinosi: l’illuminato e ambizioso sovrano di Svevia, anzitutto, che apprezza la fedeltà dell’alleato al punto da concedergli in sposa la figlia naturale Selvaggia; la dolce sorella Cunizza, cantata dall’Alighieri nel Paradiso; il taumaturgo Antonio da Padova, che lo affronta nella “tana” di Romano senza abbassare lo sguardo; l’infelice Pier delle Vigne, consigliere fidato e poi ribelle destinato al supplizio.
La «damnatio memoriae» che'gli sopravvive affonda le radici nelle cronache del tempo, perlopiù redatte da simpatizzanti della parte guelfa. Ro landino da Padova, Albertino Mussato, Fra’ Salimbene: «Hic plus quam diabolus time batur», faceva più paura del demonio, assicura quest’ultimo. E i coevi gareggiano nel descrivere il sadismo sfrena-to di “Ecelìnus” che ordina stragi di innocenti, trae piacere dall’accecamento dei prigionieri e gode ai lamenti degli ostaggi murati vivi. Tutto vero? Possibile. Aldilà dei dettagli, non documentati a sufficienza, la ferocia del suo com-portamento non è in discus-sione. Lo è, semmai, quella dei suoi nemici. Lesti a denundame gli orrori, non esitano a imitarlo.'Lo sa bene la ghi-bellina Thiene:. caduta la città, tutti i maschi catturati, bimbi inclusi, saranno evirati dai crociati. Tant’è. La morte di Federico n (1250) trasforma in incubo il sogno ezzeliniano di potenza. Papa Innocenzo IV lo accusa di efferatezze ed eresia è, nella bolla di scomunica, esorta vescovi e signori a bandire una crociata per di-struggerlo. L’ultimo ruggito del leone lascia il segno: combatte colpo su colpo, sbaraglia nemici più numerosi nella battaglia di Brescia; poi, però, affida Padova all’inetto nipote e la città capitola allassedio dei Camposampiero.  E’ il 20 giugno 1256, l'inizio della fine. Mestre, Montagnana, Este e Treviso lo rinnegano. Così, al suo fianco, non restano che il fratello ritrovato e i rudi montanari-soldati del- l’Altopiano dei 7 Comuni e della Pedemontana. Gli hanno giurato di morire con le armi, in pugno, saranno presto accontentati.
Braccato come una bestia feroce, tenta il colpo della di-sperazione e attacca in Lombardia, vuol prendere Milano. Costretto a ritirarsi, cade nell’imboscata tesagli da Azzo d’Este a Cassano D’Adda. H micidiale dardo scoccato dal «long bow» di un mercenario inglese, gli trafigge un piede. Lo sradica dalle carni, af- fronta l’ultima battaglia, sgozza un nugolo di nemici, cade da cavallo. E’ in trappola. Mentre la sua guardia personale finisce nella camera delle  torture, lui è rinchiuso in una cella. Vogliono curarlo per esibirlo come trofeo itinerante. Si illudono, perché lui non prova pietà neppure verso se stesso: strappa i medica-menti e le fasce, infila le dita nella piaga. Muore di cancrena, l’estremo sberleffo ai nemici trionfanti, riservando un’occhiata di fuoco al francescano che gli porge il crocefisso. E’ il 27 settembre ai sene secoli e mezzo fa.
Dante lo sprofonda nell’in-ferno, cupo e ghignante («E quella fronte c’ha il pel così nero, è Azzolino») sommerso nel sangue versato. Il fratello Alberico gli sopravvive un anno, asserragliato nella rocca di San Zenone. Poi cede per fame: i nemici - garanti il podestà e il vescovo di Treviso - promettono di giustiziarlo con onore, risparmiando i familiari.
Invece ai figli maschi vengono estratte le ossa (sic), i corpi dissanguati che agonizzano appesi alla forca; a moglie e figlie (inclusa una bambina) strappano il naso e il seno, poi le bruciano vive. Quanto al pater familias, costretto ad assistere all’intero spettacolo, è legato alla coda di un cavallo e trascinato fino a diventare poltiglia.
Era una belva Ezzelino III.  Non l’unica  del suo tempo, quella sconfitta però. E la storia, scritta dai vincitori, non gli ha concesso scampo.
di Filippo Tosatto

 

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